La Brexit e il rischio inflazione vanno a braccetto
Fin da subito, dopo il voto della Brexit, una delle maggiori preoccupazioni della Bank of England è stata quella di non perdere il controllo dell’inflazione Britannica.
Alla base di ciò vi era la svalutazione della sterlina. Una discesa iniziata già nelle settimane precedenti il voto, man mano che i sondaggi davano in recupero il fronte del LEAVE, per poi accelerare brutalmente nella notte fatidica, quando i risultati delle campagne britanniche rendevano sempre più probabile una vittoria del fronte antieuropeista. Il pound, che prima del voto viaggiava in area 1,35-1,40 nei confronti dell’euro, ha perso oltre 10 punti percentuali, arrivando nello scorso ottobre in area 1,10, prima di risalire verso 1,15-1,18 (in altre parole, l’EUR/GBP da 0,76 è salito oltre quota 0,90 nello scorso ottobre, per poi tornare verso 0,85). La situazione è risultata simile, se non addirittura ampliata, nei confronti del dollaro, con il rapporto sterlina/dollaro che è crollato nei mesi successivi al voto dall’1,50 fatto registrare il 23 giugno fino ai minimi degli ultimi 31 anni in area 1,20, per poi risalire verso 1,25.
Alla luce di questa svalutazione (superiore al 15%) le questioni legate alla tenuta dei prezzi sono numerose, per un paese, come il Regno Unito,tradizionalmente importatore sia dall’UE che dall’area non UE. Ed il rischio di importare inflazione è dunque elevato.
Partiamo dai dati del 2016, anno in cui il deficit commerciale con gli altri paesi è salito di quasi 10 miliardi di sterline, da 29.8 miliardi a 39.4 miliardi. Il forte surplus generato ogni mese dai servizi (circa 8 miliardi al mese) compensa soltanto in parte i 135 miliardi totali accumulati nel settore dei “goods” (11,25 miliardi al mese), con uno squilibrio superiore ai 3 miliardi mensili. Ecco dunque che il Regno Unito si ritrova costretto ad importare una serie di beni, spesso non facilmente sostituibili, in differenti settori, da quello alimentare a quello della componentistica per gli autoveicoli poi assemblati nell’UK.
In questo scenario la reazione dell’inflazione è stata abbastanza repentina, scattando da valori vicini allo zero (0,3% ad aprile e maggio 2016) fino ad avvicinare il target della Bank of England del 2% ad inizio 2017 (1,8% il valore registrato nel gennaio 2017, sui massimi da oltre 2 anni). A sette mesi dal voto l’inflazione appare dunque ancora su valori più che ragionevoli, anzi quasi ottimali se consideriamo che il 2% di crescita annua dei prezzi è generalmente il target di numerose banche centrali nei paesi avanzati. Lo scenario potrebbe però cambiare nei prossimi mesi, nel caso in cui questa spirale inflattiva dovesse proseguire, portando i prezzi a crescere anche più velocemente del 3%. In questo caso il costo della vita salirebbe più velocemente rispetto ai salari (che, stando ai più recenti dati, crescono del 2,6%) determinando di fatto una perdita di poter d’acquisto per i cittadini.
Va inoltre ricordato come il settore in cui il Regno Unito generi surplus commerciale sia quello dei servizi. Uno scenario che potrebbe essere messo in discussione nel caso in cui venisse meno il passporting per i servizi finanziari, rendendo più difficile il business con l’Europa per le aziende britanniche, in particolare per la City londinese.
Al tempo stesso la sterlina debole potrebbe in qualche modo frenare il deficit nel settore dei “goods”, anche se, come accennato, una discreta fetta dell’import britannico è estremamente difficile da rimpiazzare con prodotti interni.
La sfida per la Brexit è dunque appena iniziata, l’inflazione è ancora sotto controllo, ma in rapida salita, così come l’incertezza sul futuro economico del Regno Unito.
L'inflazione UK in netta risalita dal voto dello scorso 23 giugno in poi