Brexit: l'accordo Europa – Regno Unito sta già per saltare
La Brexit ancora non c'è, ma è già chiaro che la separazione fra Regno Unito e Europa sarà difficile, ancor più di quanto Theresa May potesse immaginare quando ha dato avvio alla Brexit. Le negoziazioni hanno infatti subito una brusca battuta d'arresto negli ultimi giorni, la distanza fra Europa e Regno Unito è cresciuta notevolmente, ben più di quelle venti miglia che separano la costa francese dalle bianche scogliere di Dover. Hanno infatti fatto scalpore le rivelazioni rilasciate dal Frankfurter Allgemeine Zeitung. Secondo il principale quotidiano conservatore tedesco il Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker si sarebbe dimostrato “10 volte più scettico” riguardo al successo della Brexit dopo il colloquio con Theresa May a Downing Street. Per il lussemburghese le possibilità di un fallimento sono ora ben superiori al 50%. I principali punti di attrito sarebbero i seguenti:
Il Regno Unito non sente di dover pagare nulla all’Unione Europea (contrariamente a quanto trapelato appena una settimana fa dai media d’oltremanica)
Il Regno Unito crede di poter prolungare unilateralmente i negoziati
I problemi legati al negoziato parallelo su un accordo di libero scambio tra Regno Unito ed Unione Europea
Le tempistiche sulla negoziazione dei diritti dei cittadini di ciascuno dei due contraenti
In altre parole: Europa e Regno Unito sono già ai ferri corti. La distanza tra le due posizioni è abissale. Le questioni derivano da una comprensione soltanto parziale dell’articolo 50 e delle procedure comunitarie da parte dei britannici, almeno secondo le voci fatte trapelare da parte europea. L’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea prevede due anni per concludere le negoziazioni di uscita dello Stato membro dall’Unione. Entro questi due anni, lo Stato rimane a tutti gli effetti un membro dell’Unione. Se non si arrivasse ad un accordo, lo Stato che ha attivato l’articolo 50 smetterebbe di essere un membro dell’Unione. Quest’ultima eventualità creerebbe il massimo caos possibile. Per questo entrambi gli schieramenti hanno finora fatto intendere che il massimo sforzo verrà profuso per evitare ciò. L’Unione, sotto la guida del capo negoziatore Michel Barnier, ha già dichiarato di voler arrivare ad un accordo entro ottobre 2018, per avere alcuni mesi di margine dopo la conclusione delle trattative. Questo anche perché l’articolo 50 prevede che le trattative debbano seguire le linee guida pubblicate dal Consiglio Europeo all’inizio del processo. Anche a causa di ciò, il Parlamento Europeo avrebbe diritto di veto sull’accordo, tramite maggioranza semplice. Ma veniamo ora ad analizzare i quattro punti sovracitati alla luce di quanto descritto nell’articolo 50 e dall’interpretazione data da politici ed esperti di diritto europeo.
1) Il Regno Unito ha pattuito, come gli altri Stati Membri, di erogare fondi per i programmi quadro dell’Unione Europea per il periodo 2014-2020 (come i Fondi strutturali e di investimento Europei ed Orizzonte 2020), di cui è contributore netto. Considerando che l’accordo è stato siglato ed è impugnabile di fronte alla Corte di Giustizia Europea, è difficile immaginare che Barnier possa scendere a compromessi su questo punto. Se lo facesse inoltre, gli altri 27 Stati dovrebbero compensare per i mancati introiti, nessun politico dell’Europarlamento accetterebbe di spiegare ai propri elettori un aumento delle tasse o un taglio alle risorse già allocate per venire incontro ai desideri del Regno Unito. Avendo il Parlamento potere di veto sull’accordo l’unica opzione per il Regno Unito sarebbe non avere un accordo, al momento l’opzione che tutti, almeno a parole, dicono di voler evitare.
2) Un prolungamento dei due anni per le trattative della Brexit può essere concordato solo con l’approvazione dei 27 membri. Considerando le spaccature sempre più forti all’interno dell’Unione, soprattutto con i governi più populisti (si pensi alle accuse del governo polacco al connazionale e presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk di aver pianificato l’incidente aereo che costò la vita all’allora Presidente della Repubblica Lech Kaczyński, fratello gemello dell’attuale presidente del partito Jarosław Kaczyński), è difficile immaginare che un argomento così delicato possa riallineare i 27 paesi membri.
3) In caso il Regno Unito decidesse di sforare i tempi prescritti dall’articolo 50, si ritroverebbe fuori dall’Unione Europea al termine dei due anni, senza un accordo. Inoltre, è sicuramente falso che un veto dell’house of commons potrebbe ritirare l’articolo 50 e far ritornare il Regno Unito un paese membro. Se il Regno Unito volesse rientrare infatti, dovrebbe avvalersi dell’articolo 49, la procedura standard per i paesi esterni all’Unione che vogliono diventare Membri, dopo essere usciti dall’Unione con l’articolo 50. Idealmente è necessario pensare ad almeno due trattati post Brexit: il primo trattato legato all’abbandono dell’Unione Europea, ed il secondo un accordo di libero scambio tra i due contraenti. Theresa May vorrebbe un terzo accordo, provvisorio, a fare da ponte tra questi due. La richiesta è in teoria legittima, dato il tempo che le negoziazioni per un trattato di libero scambio richiedono. Tuttavia questo tipo di accordo sarebbe sicuramente un cosiddetto accordo misto, il quale richiederebbe l’approvazione dei 27 paesi membri, oltre che di alcuni regioni aventi diritto di veto, finendo quindi nel punto precedente.
4) I diritti dei lavoratori europei nel Regno Unito sono uno dei punti fondamentali che devono essere risolti nelle negoziazioni sulla Brexit da parte di Barnier, così come la gestione dei funzionari inglesi nelle istituzioni ed agenzie europee, la riallocazione delle agenzie europee in altri paesi dell’Unione, le relazioni doganali (soprattutto per il confine Irlanda – Irlanda del Nord), ed il generale lo smantellamento delle obbligazioni britanniche nei confronti dell’Unione. Da questi dipendono a doppio filo i diritti dei lavoratori britannici nell’Unione Europea dopo la Brexit. L’individuazione di questi temi è semplice, dirimerli è complesso e certamente, azioni unilaterali non sono ammesse, né trattare le singole questioni una ad una. Eppure Theresa May sembra aver proposto a Juncker, durante la cena della scorsa settimana, di dirimere la questione degli expat entro la riunione consiglio europeo di giugno. Questo sarebbe solo una delle osservazioni che avrebbero reso il Presidente della Commissione più scettico sulla buona riuscita del quadro. Juncker avrebbe infatti fatto notare che la questione è assai più complessa e richiederebbe molto più tempo, essendo legata a molte altre questioni (ad esempio, il diritto alle cure mediche nei rispettivi paesi).
Dai quattro punti appena elencati, oltre alla non citata ma comunque attualissima ed intricata disputa sulla giurisdizione e la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea nei confronti del Regno Unito, pare evidente che ci siano enormi ostacoli sulla strada per avere una “Brexit-successo” come dichiarato dalla May. Juncker avrebbe cercato di far capire al Primo Ministro inglese le difficoltà della Brexit partendo da esempi sull’accesso alla Croazia nell’Unione Europea e sulle trattative per il CETA, sottolineando che la separazione EU-UK sarebbe stata molto più complessa. La strada è in salita, inoltre, c’è un conto alla rovescia già in atto molto difficile da fermare, entro il quale almeno due accordi devono essere raggiunti. In questo scenario il Regno Unito si trova a far fronte ad una frenata della crescita del Pil, mentre l'inflazione sale pericolosamente e la sterlina resta debole sui mercati. L'azzardo della Brexit potrebbe costare davvero caro al Regno Unito.
Articolo a cura di Simone Rosini,
collaboratore di Fondazione Giacomo Brodolini e PhD Student all'Università di Modena e Reggio Emilia